domenica 21 agosto 2011

ALL BLUES (poche cose, forse pure sbagliate sul blues)

E' stato durante un concerto su una cascina di Stagno Lombardo che m'è capitato. Stavo suonando con la banda, i Fieldmen Of Blues, e mi sono chiesto perchè accidenti stavo facendo lo stesso assolo, o circa, da trenta concerti. E perchè le registrazioni dei concerti della banda mi dicevano che le canzoni le tiravamo troppo lunghe e che parevano tutte uguali. La responsabilità era mia. Ero io il capo. Per questa ragione mi sono fermato e sono ancora fermo col blues. Per questo ho cambiato scenario: narrazione di storie con Massimo Zemolin e Gigi Tempera, rock italiano con Ricky Bizzarro, l'Argentina di Marcelo Zallio e un esperimento di sola voce, armonica e chitarra, con un organo che fa un'unica nota, un po' sullo stile di Johnny Cash, periodo Rick Rubin. Tutto per evitare il circo degli assoli del blues, che alla fine, quasi sempre, menano sempre lo stesso torrone. O menano torroni già menati da mò. Il buon Silvano Montagnoli (che è un po' la mia finestra sul mondo del blues italiano) ha postato il video di un concerto d'un celebre chitarrista italiano che coverizzava (nel senso buono del termine) Angelo "Leadbelly" Rossi. Entusiasmo, maestria, un occhio di riguardo allo spettacolo, nel senso di saper stare in scena, ma dopo un po' per me, che un po' di blues l'ho ascoltato, i riferimenti erano evidenti: sapevo da dove aveva preso quel timbro, quell'approccio e io, sinceramente, non vedo perchè dovessi dire più di un laconico "bravo", visto che quelle robe le ho già sentite minimo (minimo, minimo) quindici volte. Non è una critica che rivolgo solo agli altri. In "Wimmen And Devils" dei Fieldmen Of Blues ho suonato la medley "Lord, Lord/Blues Hit Big Town" di Junior Wells direi bene. Junior Wells è probabilmente l'armonicista, o musicista, di blues che preferisco ed è stato piacevole allora suonarla, ma subito dopo è sorta la domanda definitiva: "Ma perchè uno dovrebbe mettersi ad ascoltare Marco Ballestracci che fa Junior Wells quando può acquistarsi il capolavoro della Delmark "Blues Hit Big Town e ascoltare direttamente gli originali di Junior"? Già perchè? Tutti quelli che parlano di "preservazione" non mi hanno mai particolarmente convinto, visto che i dischi preservano già abbastanza bene per conto loro e al posto dei musicisti basterebbero i disc jockey radiofonici per diffondere le note nell'etere.
La realtà è un'altra. Il blues è la musica che meglio di ogni altra consente a chi desidera salire su un palco di salirci il più velocemente possibile e così di cominciare a risolvere leggittimi problemi di "apparenza". Non c'è niente di male ma, dal mio punto di vista, dopo un po' bisogna ammetterlo ed accorgersene, altrimenti tutto può diventare una "posa" e sconfinare in qualcosa di vagamente patologico.  Questo dovrebbe, al passettino successivo, portare alla consapevolezza che Louis Myers nel brevissimo "Theme" che chiude "Live In Boston 1966 - Junior Wells and The Aces" suona paro/paro tutti, ma proprio tutti, i riffs di chitarra che i chitarristi d'orientamento blues/jazz italiani adoperano quotidianamente. E quindi, nuovamente, cadere nella stessa domanda: "Ma, cazzo, gli hanno già suonati nel 1966 e io sto qui nel 2011 a rifarli uguali. Miiinchia". E' necessario porsela per non prendersi in giro e autocostruire una falsa immagine di sè. "Sì, sono proprio bravo. Peccato che abbia copiato T-Bone Walker nota per nota. Per cui il bravo è lui. E se lui è lui, io chi cazzo sono?". E bisogna fermarsi, cosa difficilissima soprattutto per i musicisti professionisti che devono suonare per campare e non potendosi fermare non riescono a sentire altri stimoli che non siano la (scarsa) pagnotta. 
Nel blues è già stato detto tutto, onore ai maestri che bisogna conoscere e imparare, ma non bisogna spacciare, come ho sentito fare in un importante festival, "I Want To Be Loved" per una canzone propria solo perchè s'è modificato il testo. Quelli che il blues un po' l'hanno masticato mangiano la foglia prima che immediatamente e del giudizio degli altri, quelli che vogliono "Sweet Home Chicago" e "Roadhouse Blues", francamente, per quanto lusinghiero possa essere il loro giubilo, ce se ne può tranquillamente sbattere le balle.
Ora il BLUES è un patrimonio inestimabile che bisogna conoscere, ma per avere un senso bisogna lasciarselo alle spalle e guardare avanti. Creare il proprio blues, che è la propria forma d'espressione. Invece mi tocca vedere gente che storce forte il naso di fronte a Black Keys, Tinariwen (la tradizione touaregh, a mio avviso, è forse uno delle componenti fondamentali del suono e della sociologia del blues), Richard Johnston, White Stripes e, qui casca l'asino, Chapel Hill, che tentano una propria via a partire dal blues. Anche in Italia si può fare. Conoscere a memoria Sister Rosetta Tharpe, Fred Mc Dowell, Skip James, ma guardare avanti, ben sapendo come dicono gli Afterhours che "Milano Non E' L'America" e come dice Paolo Bacco che se nel Mississippi qualcuno muore dissanguato perchè la moglie gli ha tagliato l'uccello chè l'ha scoperto con un'altra donna, allora lo si può chiamare bluesman, mentre in provincia di Padova e Rovigo lo si può chiamare tranquillamente BAUCCO, che sta per povero tonto. Magari qualcuno dirà che è voler troppo. L'impossibile. Io invece dico: "I Don't Want To Take Nothing With Me When I'm Gone" di Angelo "Leadbelly" Rossi. E' la strada.

Voglio ringraziare Paolo "Denti da Coniglio" Bacco e Luigi Tempera per le interminabili discussioni su questa cosa misteriosa chiamata BLUES, che forse neppure esiste.

martedì 16 agosto 2011

MAGARI

Questo articolo è stato pubblicato sul Gazzettino di Treviso, domenica 14 agosto 2011. Ancora una volta, per esigenze di spazio, è stato tagliato. Sono gli imprevisti di collaborare con un giornale, ma sul blog, come già dicevamo, problemi di spazio non ce ne sono, perciò ecco la versione originale.


Mi sussurra in testa da un po' di giorni il nome di Marco Goldin. Fino al 2003 era stato importante per Treviso. Secondo me, naturalmente. Lo era perchè qui, in provincia, via dal capoluogo, ci si domandava entusiasti: "e quest'anno cosa porta Goldin a Casa dei Carraresi?". E si stava in attesa, perchè si sa, in provincia, a ferragosto soprattutto, si aspetta che accada qualcosa. Ma poi era bello perchè, quando s'andava in giro a suonare a Milano piuttosto che a Reggio Emilia, c'era sempre qualcuno che parlava di Treviso per via degli impressionisti. Quelli dentro a Casa dei Carraresi e anche a Palazzo Sarcinelli. Poi Goldin è scomparso. Non ne so la ragione, ma c'è chi dice perchè era ingombrante e chi perchè non si poteva finanziare solamente un grosso evento e basta: era come finanziare un unico concerto importante e niente altro. Alla prima possibile ragione si può rispondere molto lapidariamente: chiunque abbia menato un poco il torrone della cultura sa che i personaggi che emergono, quelli non figli di papà, hanno sviluppato, dai e dai, sei dita di pelo sullo stomaco, perciò ingombranti un po' per natura e un po' per evoluzione della specie. La seconda ragione apre invece scenari complessi. Innanzitutto e da sciogliere la dicotomia mostra/concerti. Una mostra importante e un concerto importante hanno due diversi impatti sul territorio. La prima, a livello turistico ed economico ha un feedback enormemente più considerevole. A Castelfranco i gestori di hotel e ristoranti stanno ancora latrando al ricordo della Mostra del Giorgione del 2010. Ne rivorrebbero un'altra, ma dovrebbero sapere che i musei prestatori, prima o poi, le opere le rivogliono indietro. Non tutti hanno la fortuna di Francois Pinault che può usare Palazzo Grassi e Punta della Dogana come magazzini per la roba che non gli sta in casa. E dovrebbero sapere pure che di convegni e fregi, tutta roba per specialisti, alla gente normale non gliene può fregar di meno: o mostre importanti o nisba. Perciò nonostante la buona volontà di alcuni mecenati che organizzano a spese loro eventi di una certa portata che richiamano anche parecchia gente dalla Marca, è da sottolineare che solo i grandi eventi culturali, contiguamente plurigiornalieri, svolgono una reale funzione di leva economica. Personalmente sono convinto che con la cultura si mangi primo, secondo, contorno, dolce, caffè e anche liquorino. Perdipiù oggi diventa persino indispensabile specializzarsi in economia della cultura, se vogliamo chiamarla così, profondamente attigua all'economia del turismo, per veder di saltar fuori in qualche modo dalle acque salmastre. Lo dicono tutti che l'unica grande risorsa di questa nostra povera patria sono le opere d'arte, i santi, i poeti e i navigatori. Magari sono nati in Veneto anche i fratelli Bellini e Andrea Mantegna, magari non è necessario che la mostra di prestigio debba per forza riguardare un pittore nato propriò là,  magari si possono anche organizzare giornate di teatro come ad Avignone o festival cultural/musicali davvero importanti, e qui di esempi ce ne sono a bizzeffe in giro per l'Italia e l'Europa. Magari nella Marca ci sono persino persone in grado di organizzarle, magari non lucrandoci troppissimo sopra. Magari si potrebbe fare un saltino in Svizzera per vedere come si organizzano per bene gli eventi culturali. Magari qualcuno direbbe: "Ma in Svizzera hanno i soldi" e magari s'incontrerebbe qualche svizzero, come è capitato a me, che, indicando gli eleganti palazzi di Via Nassa a Lugano, direbbe: "La vedi tutta stà roba? Ecco. E' stata tutta costruita con i vostri soldi". Chissà perchè qui da noi si finisce quasi sempre per dire: "Magari!".

domenica 7 agosto 2011

SERENISSIMA ROCK'N'ROLL plus Piccola Favola Per Agosto

Pubblicato sul Gazzettino di Treviso di domenica 7 agosto.
Per l'occasione lo pubblico integralmente, nel senso che, per motivi di spazi giornalistici, la versione qui riportata è stata, da me stesso, ridotta. In un blog non abbiamo di queste problematiche perciò eccovela "nature", più prolissa e esagerosa, però "nature". A seguire una Piccola Favola d'Agosto, per tenervi su di morale se doveste rimanere incollati al vostro schermo.

I più attenti si saranno certamente accorti di un fenomeno che accade da un po' d'anni. E' un fenomeno trascurabile, una cosettina da poco a ben vedere, ma, secondo me, esplicativo di qualcosa. Ogni tanto in qualche locale pubblico, in mezzo a gente che si sta facendo gli affari propri, piombano degli individui che cominciano a parlare a voce alta della Serenissima Repubblica. Attaccano bottone con chiunque per perorare stà causa, ma alla prima occhiata appare chiaro che il loro rapporto con la Storia, la disciplina scientifica, intendo, è faraginoso. Per loro Adriano, non è Publio Elio Adriano, l'imperatore romano pacificatore di cui si sa pochissimo, ma Adriano Leite Ribeiro, l'imperatore del Flamengo, passato all'Inter e poi precocemente impanzonito. Nonostante codeste difficoltà d'interpretazione storiografica, appare chiaro che recentemente debbano aver frequentato un seminario del povero professor Frederic C. Lane, morto però nel 1984, alla Johns Hopkins University di Baltimora, per raggiungere un così elevato grado di preparazione sui temi di cui disquisiscono all'interno dei locali pubblici della Marca e del Veneto in generale. Spesso le discussioni terminano con un perentorio: "Senti, a mi dea Repubblica Serenissima no me ne frega gnente". Al che i relatori rispondono con l'immancabile e oramai prevedibilissimo: "Come? Non ti interessano le tue radici. Le tue origini?". Ecco, proprio di origini e radici volevo parlare, riferendomi in particolare al dialetto. A giugno, quando a Castelfranco è stato organizzato Bolascolegge, ho avuto il piacere di scarrozzare per la città Margherita Oggero e Ernesto Ferrero che sono rimasti piuttosto sorpresi del fatto che, per interloquire con gli amici e i conoscenti, io usassi esclusivamente il dialetto. "Ma qui parlate tantissimo dialetto!". "Beh certo! Noi l'adoperiamo praticamente sempre nei rapporti personali". Erano sorpresi di questa circostanza, mentre io ero davvero a mio agio e anche, come ho già scritto in precedenza, un pochetto orgoglioso. E' un po' come far parte di una banda con un proprio linguaggio interpretabile, più o meno, solo da chi ne fa parte. Un po' un vezzo da ragazzotti, per dirla tutta. D'altro canto, però, mi sento davvero estraneo e lontano anni luce da chi ammicca all'uso del dialetto come una sorta d'originale appartenenza a un non meglio identificato "popolo veneto". In particolare mi fa ridere quella tendenza che nell'ammiccamento traspare quando si parla di band musicali che utilizzano, in tutto o in parte, il dialetto nel loro repertorio. Generalmente vengono identificati, ghignando, come "roba nostra", "roba de qua". Ora, io posso portare la mia personale, limitata esperienza nel campo riferendomi a due particolari esperienze. La prima è quella dei Radiofiera di Ricky Bizzarro che nell'ultimo cd "Atimpuri" sciorinano tutta una serie di canzoni in dialetto, proseguendo, comunque, una teoria già iniziata nella loro passata produzione discografica. Per conoscenza personale posso decisamente garantire che non c'è alcun ammiccamento di "prurigine autoctona" nelle canzoni di Ricky Bizzarro. Anzi, direi. Sono piuttosto una sorta di rivendicazione di provenienza da un mondo, Fiera di Treviso, con tutta una sfilza di personaggi caratteristici che si affacciano a un mondo più grande, da esplorare con curiosità. L'altra, meno conosciuta ai più, è quella di una band troppo facilmente etichettata come band da sagra paesana e da confusione. I Los Massadores vengono da Riese Pio X, piccolo paese con una spontaneo e stimolante status culturale giovanile da città più grande. Non nascondono, come i Radiofiera, le loro origini, anzi, ne sono, come me, un pochetto orgogliosi, ma la loro propensione al dialetto e al vaudeville è piuttosto travisata. Nel loro "Scheiline" (già il titolo vuol dir qualcosa) parlano di questioni piuttosto spinosette del nostro territorio e credo che la canzone che meglio evidenzi queste questioncine sia "L'ignodanza": una sorta di parodia di quelli di cui parlavo all'inizio. I Testimoni di Geova della Serenissima Repubblica. I paladini de "A Terra Ze (o Xe) Nostra". E' clamoroso quando nella canzone, dopo una serie di orgogliosissimme rivendicazioni di veneticità, si finisce per parlare di badanti. Una roba tipo: "Sì, sì, ste casa vostra, ma da dove vien a badante de to mare?". I Testimoni di Geova della Serenissima Repubblica, quelli che sono stati alla Johns Hopkins per il seminario sul doge Giovanni Bembo, prima di ammiccare gongolanti e dire: "I Ze (o Xe) dei Nostri", almeno i testi delle canzoni dovrebbero leggerli. Almeno quello.

Una piccola favola d'agosto
Stazione di Padova. Pomeriggio/sera d'un venerdì. Arrivo col treno e mi dirigo verso l'uscita. C'è qualcosa di nuovo però in stazione. Di fronte al consueto parterre di tossici marci, puttane, extracomunitari pronti a tutto  sono schierati in circolo dei ragazzotti, ma anche gente un po' meno ragazzotta, che cantano Inni a Dio. In circolo dentro all'atrio della stazione di Padova. Una scena surreale. Questi che cantano in circolo agitando le braccia e le gambe con i loro Tao di legno che penzolano dal collo e tossici, questuanti, homeless che li guardano straniti. Che non capiscono un cazzo di quello che sta succedendo. Mi fermo un attimo e un pensiero feroce mi passa per la testa. "Ma se proprio ti toccasse scegliere da che parte stare, se la vita ti mettesse con le spalle al muro, da che parte preferiresti stare?". C'ho pensato a lungo, ma poi ho scelto. Preferirei stare tra quelli che che cantano e ballano. Per una questione d'aspettativa di durata di vita.